Il Dolore cronico: un approccio biopsicosociale

Il dolore cronico figura nell’alveo dei disturbi che possono avere un’origine psicosomatica ed è una condizione che affligge numerose persone al giorno d’oggi.

Risulta particolarmente invalidante per chi ne è affetto e la sua gestione quotidiana permea molte sfere della vita della persona. Di seguito esploriamo le sue declinazioni e i meccanismi che possono determinarne l’insorgenza e il mantenimento.

COS’È IL DOLORE?

Generalmente il dolore è da intendersi come una risposta difensiva che fornisce informazioni utili all’individuo, affinché egli possa distanziarsi dallo stimolo o dall’azione nociva.

Quando si protrae oltre alla fase acuta, è possibile che alcuni fattori psicologici, in stretta interazione coi processi fisiologici, ne promuovano il mantenimento. L’esperienza del dolore, infatti, coinvolge la dimensione sensoriale, cognitiva, emotiva e comportamentale.

La categorizzazione più comunemente utilizzata per concettualizzare il dolore lo distingue in nocicettivo, neuropatico e riferito.

Il dolore nocicettivo è il risultato della stimolazione meccanica, termica o chimica dei recettori del dolore, detti nocicettori. Questa esperienza viene condotta al cervello tramite le vie nervose ascendenti, dove viene modulata da varie aree cerebrali.

Il dolore neuropatico si manifesta in assenza di stimoli esterni e deriva da un’alterazione della struttura deputata alla conduzione del dolore. A volte può manifestarsi iperalgesia, ovvero una risposta esasperata a uno stimolo dolorifico anche lieve, che costituisce una delle ragioni di cronicizzazione.

Infine, il dolore riferito è quello che la persona sente in un’area differente da quella del danno o dell’alterazione nervosa. La ragione di ciò, in assenza di iperalgesia, può essere la convergenza di input dal tessuto più profondo a quello cutaneo sui comuni neuroni spinali somatosensoriali. Se vi è iperalgesia, il dolore potrebbe essere spiegato dal processo di sensibilizzazione centrale.

LA SENSIBILIZZAZIONE CENTRALE

La sensibilizzazione centrale è uno tra i fenomeni più studiati di recente nell’ambito della cura del dolore cronico e diffuso, e quest’ultimo ne costituisce il sintomo principale.

Possono altresì figurare sintomi quali difficoltà di memoria e concentrazione, fatica, capogiri, problemi alla pelle, sintomi d’ansia, disfunzioni sessuali, ecc.

Come si instaura questo meccanismo?

 Il cervello è un organo incredibilmente plastico, ossia permeabile all’apprendimento. Allorché entra in contatto con nuove informazioni, esso genera nuove sinapsi tra i neuroni e altrettanti rinnovati network cerebrali.

Non a caso, la gestione del dolore – sia esso fisico che “emotivo” – può trarre grandi benefici da pratiche quali la meditazione, la mindfulness e il training autogeno o l’ipnosi, che aiutano il cervello a “cambiare” il rapporto con questi stati dolorosi.

Tali pratiche portano l’individuo a stati di coscienza alterati, raggiungendo una profonda concentrazione.

Durante ipnosi, mindfulness o training autogeno, ad esempio, il soggetto rimane consapevole ma la sua attenzione è focalizzata in modo intenso (talvolta su alcune specifiche parti del corpo o sul respiro), riducendo la consapevolezza dell’ambiente circostante.

Il cervello quindi può imparare ad affrontare in maniera differente, nel tempo, il dolore.

Una volta conclusosi questo apprendimento, il cervello è come se inserisse il pilota automatico ogni qualvolta debba recuperare quella funzione dal suo repertorio mnestico. Se però questi comportamenti e cognizioni apprese non vengono rinforzate nel tempo, le sinapsi a esse soggiacenti vengono eliminate. La pratica, invero, è fondamentale per rendere le sinapsi più forti ed efficienti.

Questo è ciò che succede anche nella sensibilizzazione centrale: il cervello cambia in risposta al dolore, si creano nuove sinapsi e la trasmissione del dolore diventa molto efficace (dolore nociplastico).

La persona finisce per sentire il dolore con eccessiva facilità, quasi come se fosse in modalità pilota automatico.

 Questa ipersensibilità si genera a causa dell’amplificazione del segnale nocicettivo a livello del sistema nervoso centrale.

La neuroplasticità si verifica anche a livello del midollo spinale, dei nervi periferici, del sistema immunitario ed endocrino.

In situazioni normali il dolore è un segnale che qualcosa di anormale sta accadendo e invita il corpo a porvi rimedio, attivando al contempo la capacità top-down di soppressione del dolore (dall’alto verso il basso), che si serve di neurotrasmettitori (GABA, serotonina) e oppioidi, tra cui le endorfine.

Nella sensibilizzazione centrale è come se questo sistema di allarme stesse funzionando male, poiché vi sono molte informazioni bottom-up al cervello e poca inibizione discendente degli input nocicettivi periferici.

Una delle conseguenze è che l’individuo finisce per focalizzarsi eccessivamente sul dolore, non riuscendo a distrarsi da esso e a muoverlo al di fuori del campo della coscienza.

Le aree affette dalla sensibilizzazione centrale sono dunque:

  • Le sensazioni di dolore periferico a livello di pelle, ossa, muscoli, tendini, vene, organi; con manifestazioni di iperalgesia e allodia (percezione dolorosa in contatto con uno stimolo innocuo).
  • L’abilità nel rispondere a situazioni stressanti: in condizioni normali, il corpo rilascia ormoni e neurotrasmettitori ad effetto analgesico, quali adrenalina, noradrenalina e cortisolo, quando è posto a fronteggiare lo stress. Questi, infatti, sono così potenti da anestetizzare temporaneamente il dolore, anche a fronte di una stimolazione ingente o infortuni. Ci sono esempi di persone con alta percezione dello stress che possono riuscire, inconsapevolmente, ad aumentare la propria pressione sanguigna per ridurre progressivamente il dolore, a spese però di una peggiore salute cardiovascolare e dello sviluppo di ipertensione. Al contrario, nel caso della sensibilizzazione centrale, una situazione stressante aumenterà il dolore, anziché ridurlo.
  • La risposta al movimento: l’individuo reagisce provando dolore, in contrapposizione alla consueta esperienza di benessere dovuta al rilascio di endorfine.

La sensibilizzazione centrale ha origine da un dolore acuto, che in alcune persone predisposte esita in questa cascata di sintomi durevoli. Abbiamo affermato poco fa che l’ipersensibilità si genera a causa dell’amplificazione del segnale doloroso a livello del sistema nervoso centrale.

Dunque…

 Cosa determina questa amplificazione?

Allo stato dell’arte è assodato che le cognizioni e le emozioni influenzano, in una relazione biunivoca, il sistema nervoso e l’apparato cardiovascolare.

Pertanto, in questa amplificazione e alterazione disfunzionale sono cruciali le emozioni, i pensieri catastrofizzanti sul dolore, la risposta comportamentale e le risposte sociali.

  • La soppressione delle emozioni e l’incorretta elaborazione possono condurre a delle manifestazioni dolorose nella misura in cui, ad esempio, si contraggono i muscoli come modalità per fronteggiare una situazione spiacevole. Oppure, come nel caso della paura del dolore, si evita l’attività fisica, risultando in un circolo vizioso disabilitante.
  • La percezione della regolazione del dolore è probabilmente influenzata dall’interpretazione dell’input nocicettivo e dalle credenze individuali acquisite nel corso della vita, tra cui figurano le credenze di autoefficacia e il significato attribuito al dolore.

-Il comportamento costituisce una sorta di feedback che può informare il cervello riguardo alla severità del problema fisico. Se la persona, in risposta al dolore, abbandona completamente le attività piacevoli, informa ingiustificatamente il cervello che il problema è davvero serio, esacerbando le risposte di allarme.

-Anche le risposte sociali, ovvero come la famiglia e gli amici rispondono al nostro dolore, influiscono sull’esperienza di dolore creata dal nostro cervello.

DESENSIBILIZZARE È POSSIBILE?

È possibile che il sistema nervoso, in virtù della sua plasticità, si desensibilizzi se la persona intraprende un lavoro globale su sé stessa. È opportuno, a tal fine, considerare il paziente come un agente attivo del cambiamento.

Le opzioni di trattamento maggiormente efficaci al fine di favorire questo brain retraining sono il movimento e le terapie mind-body (biofeedback, la già citata mindfulness, ecc.).

Le terapie mind-body riducono la catastrofizzazione e aumentano la connessione mente-corpo, laddove l’attività fisica piacevole permette al cervello di sovrascrivere sulle connessioni cerebrali precedenti, secondo il principio per cui l’azione può modificare a sua volta i pensieri. Alcune terapie ancillari prevedono l’integrazione di magnesio, la somministrazione di farmaci SSRI e una buona igiene del sonno.