Test di Rorschach, cos’è e come funziona il test della personalità più famoso
Lo chiamano anche il test delle macchie d’inchiostro, indicando quello che è il mezzo attraverso il quale viene effettuata la valutazione psicodiagnostica: è il test di Rorschach, che prende il nome dal suo inventore, lo psichiatra svizzero Hermann Rorschach, che lo ha ideato all’inizio del Novecento.
Ma cos’è esattamente il test di Rorschach, così affascinante da entrare nella cultura popolare attraverso il cinema e la letteratura?
Si tratta di un test psicologico proiettivo, utilizzato per indagare la personalità dell’individuo al quale viene somministrato. In particolare, il test delle macchie è in grado di fornire dati utili sul funzionamento del pensiero del paziente, sul disagio affettivo e sul modo in cui rappresenta sé stesso e gli altri.
Un test proiettivo è uno strumento psicodiagnostico che si basa su stimoli visivi volutamente ambigui, che vengono mostrati al soggetto da valutare. È il soggetto a dare loro un significato, proiettando nell’immagine un significato psicologico personale. Il test di Rorscach non è l’unico test proiettivo esistente, pur essendo uno dei più famosi. Altri esempi sono il test del disegno della famiglia, il test della figura umana e quello del villaggio.
Non esistono risposte giuste o sbagliate al test di Rorschach, che indaga la soggettività dell’individuo. Le macchie di per sé non rappresentano nulla, non sono qualcosa di preciso e definito. Quando una persona risponde alla domanda “che cosa vedi in questa macchia?” rivela le caratteristiche psichiche della sua personalità. Esiste un lungo elenco standard di possibilità interpretative delle diverse macchie che consente di valutare le risposte del singolo.
Come nasce il test di Rorschach
Ma come mai Rorschach inventa un metodo di diagnosi che si basa su delle macchie d’inchiostro? Per capirlo bisogna risalire indietro. Come racconta l’articolo sul test delle macchie di Rorschach pubblicato dal Centro di psicologia e psicoterapia a Roma Prati La Fenice, questo test psicodiagnostico trae le sue origini da un gioco di società molto diffuso nell’Ottocento, il Blotto.
Un gioco che, in parte, assomiglia a qualcosa che si fa fare anche ai bambini di oggi. Si prendeva dell’inchiostro e lo si lascia colare oppure si spruzzava su un foglio bianco che veniva poi piegato a metà. In questo modo, l’inchiostro si spargeva su entrambi i lati, andando a formare un’immagine simmetrica. In seguito, si interpreta liberamente l’immagine formata dalla macchia d’inchiostro. I partecipanti raccontavano cosa ci vedono.
Un po’ come quando guardiamo una nuvola in cielo e diciamo che somiglia a qualcosa.
Hermann Rorschach, tra il 1911 e il 1921, lavora con pazienti psichiatrici e pensa di somministrare loro una serie di macchie, esattamente come nel gioco. Prima di lui, altri studiosi avevano cercato di usare le macchie d’inchiostro in alcuni esperimenti. Nel 1896, per esempio, Alfred Binet utilizzò l’interpretazione libera delle macchie di colore per valutare l’intelligenza. Rorschach, invece, nota che i malati di schizofrenia fanno associazioni di pensiero diverse rispetto alle persone sane. Inizialmente usa le macchie dello stesso Blotto e, in seguito, sperimenta altre immagini, create da lui. Cambia le forme, i colori, la grandezza delle macchie d’inchiostro, cerca la sequenza corretta, vuole formalizzare un metodo, uno strumento diagnostico. Tutto il su lavoro confluisce in un volume, “Psychodiagnostik”, pubblicato nel 1921, dove egli spiega gli esperimenti portati avanti e i risultati ottenuti, inserendo nel testo le tavole che diventeranno famose come test di Rorschach.
Sono soltanto dieci, non per una precisa scelta dello psichiatra, ma per questioni economiche. Infatti, nel momento in cui porta il volume dall’editore, questi gli dice che potrà stampare solo dieci delle immagini proposte, a causa dei costi eccessivi.
L’anno dopo, nel 1922, Rorschach muore a solo 37 anni a causa di una peritonite mal diagnosticata. Nonostante la sua prematura scomparsa, il test comincia a diffondersi e a essere utilizzato da psichiatri e psicodiagnosti.
Fino agli anni duemila, dopo quasi un secolo dalla sua nascita, c’era un solo editore a stampare le tavole delle macchie di Rorschach. Poi, il gruppo editoriale Giunti, distributore esclusivo in Italia del test di Rorschach ha pubblicato una versione del test tutta sua, a partire da foto delle tavole. Da lì è nata una questione raccontata in un articolo pubblicato su Repubblica nel giugno del 2017.
Come funziona il test di Rorschach
Proprio perché si tratta di un test psicodiagnostico proiettivo, in cui ha enorme valore l’impressione suscitata dall’immagine, per poter essere sottoposti al test delle macchie di Rorschach è necessario non aver mai visto le tavole. Conoscere già le macchie utilizzate, i colori, la sequenza con la quale vengono proposte le diverse immagini inficia la diagnosi.
Il test della personalità dovrebbe essere utilizzato solo ed esclusivamente da professionisti esperti, in possesso di un’adeguata preparazione per la somministrazione e l’interpretazione dei risultati.
Lo psichiatra o lo psicoterapeuta mostra al paziente dieci tavole sulle quali sono stampate altrettante macchie d’inchiostro. Alcune sono monocromatiche, di colore nero, altre di colore nero e rosso e alcune policromatiche. Sono tutte simmetriche, poiché nel corso dei suoi studi Rorschach si rese conto che le macchie asimmetriche venivano considerate prive di senso, c’era bisogno che avessero una struttura, che è proprio la simmetria. Anche la sequenza, cioè l’ordine secondo il quale vengono presentate le diverse macchie d’inchiostro, è ben precisa.
Ci sono, inoltre, delle rigide regole da seguire nel corso della somministrazione del test per ottenere un esito attendibile. Prima di cominciare, viene chiesto al soggetto se conosce il test e se è già stato sottoposto. Nel caso in cui la risposta sia affermativa e non siano trascorsi almeno cinque anni, non sarà possibile usare le macchie di Rorschach. La diagnosi, dunque, dovrà basarsi su altri test e strumenti di diagnosi.
Idealmente, l’esaminatore dovrebbe sedere accanto all’esaminato, mai di fronte poiché deve mettersi in condizione di non influenzare il paziente. L’esaminato deve essere “da solo” di fronte allo stimolo, si deve limitare la possibilità che venga distratto.
Quando questi farà delle domande, lo psichiatra o psicologo non dovrà dare risposte affermative o negative che possano condizionare il paziente stesso. Le risposte devono essere neutre e non si possono dare suggerimenti di alcun tipo.
Il medico consegna la prima tavola nelle mani del paziente e gli domanda di descrivere la macchia che vede. È importante che la tavola non venga posata sulla scrivania, ma resti nelle mani del soggetto esaminato.
L’esaminatore deve cercare di riportare fedelmente quanto verbalizzato dal soggetto esaminato, le sue risposte spontanee sulla base delle quale verrà effettuata la diagnosi. Anche il tempo impiegato per la “produzione” cioè per fornire le risposte agli stimoli visivi rappresentati dalle tavole, va considerato nella valutazione.